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Writer's pictureVince Arduaine Di Dato

Incontro con Kavafis


Alessandria d'Egitto è prima di tutto un'illusione della nostra fantasia. Non che non sia una città vera, anzi. Ma Alessandria è inevitabilmente quello che noi abbiamo sognato leggendo di lei. Non importa quanto vogliamo essere razionali od obiettivi. Ogni cosa è filtrata da come la nostra immaginazione ha vissuto, letteralmente vissuto, questo luogo prima ancora di esserci. Così, più si ha letto dell'antica Alessandria - dei sapienti e di Ipazia, di Alessandro Magno e di San Francesco, di Napoleone e di Durand de la Penne - più si incontrano, in ogni angolo di strada, i personaggi della storia, del mito e della nostra fantasia, mischiati, sfuggenti ma nello stesso tempo presenti dinnanzi ai nostri occhi. Fino a vedere il Grande Faro e giurare che c'è, contemporaneamente innalzato verso il cielo e giacente nel fondo del mare, di fronte alla fortezza del porto.

Ad Alessandria sono arrivato nel 1996, con un viaggio in treno dal Cairo, partendo da quella stazione che si era autodedicato, insieme alla piazza, il presidente Mubarak. Leader dispotico, certo, ma non privo di una visione: ai tempi l'Egitto era l'unico luogo al mondo dove il capo di una nazione, anziché puntare su una cieca normalizzazione burocratica, aveva coinvolto il suo popolo in un'avventura davvero faraonica. Aveva immaginato un secondo Nilo artificiale, da Assuan alla costa mediterranea, colmando di acqua la depressione di Qattara, ora quasi inaccessibile per i milioni di mine sparse dagli eserciti del secondo conflitto mondiale. avrebbe così rigenerato i villaggi esistenti e costruito nuove città lungo il suo corso, moderne, interamente informatizzate e connesse con il resto del pianeta. Un'utopia che faceva sognare e vivere un popolo. Fino alla caduta.

Il treno era pulito, abbastanza nuovo, migliore dei regionali italiani di quel tempo. Percorreva la ferrovia verso nord costeggiando il Nilo. Tra canneti e macchie fitte di papiri, case fluviali accanto alle quali le donne lavavano i panni nella corrente del Grande Fiume. Quando il treno è entrato nella stazione di Alessandria, la banchina principale era completamente occupata di uomini che pregavano, inginocchiati verso la Mecca, per la ṣalāt al-ẓuhr.

Nei due giorni successivi passati ad Alessandria, quella sensazione di città irreale e nel contempo vera, così estranea al Medio Oriente, così sedimentata di presenze mediterranee e favolose, si era rafforzata, con le visite alle catacombe, con le passeggiate lungo il porto e il mare, persino passando davanti ai dock industriali, pieni di container e di quell'usuale e inconfondibile odor di pesce e catrame. Eppure, i fast-food poveri e sporchi erano ben veri, così come il traffico intenso di auto per lo più bianche e corrotte di bozzi e di ruggine. Anche i controlli antiterrorismo con il detector all'ingresso dell'hotel erano così reali e quotidiani, per una città di quell'area in quell'epoca. Ma niente di tutto ciò cancellava l'altrettanto sensibile convinzione di trovarsi sospesi tra uno spazio e un tempo che solo lì potevano congiurarsi.


Ad Alessandria c'è la casa del poeta Kavafis. Forse l'ultimo dei tolemaici che vissero in simbiosi con Meria, l'Egitto di epoche lontane. Forse l'ultima voce, sensibile, di quella realtà. Si passa per strade strette di una città vecchia rimaneggiata da costruzioni di una trentina d'anni, a tratti nemmeno riconoscibile come una zona storica. Si sale una scaletta stretta tra muri candidi, un po' simile a quella casa di Shelley a Roma, ma certamente meno ricca, meno splendente. Nel suo essere dimessa, quella di Kavafis è consona e armonica con lo spirito del luogo in cui si trova. Bisogna suonare per entrare; più volte. Scende le scale un anziano e distinto egiziano, un po' sovrappeso e vestito di un abito liso, vecchio, color grigio caldo chiarissimo, quasi un crema, con un leggerissimo disegno principe di galles, con un filetto incrociato, rosso, appena accennato. Il colletto della camicia è molto consunto e i polsini, un po' ingrigiti, spuntano abbondantemente dalle maniche troppo corte della giacca. La cravatta è allentata, su toni ocra e bordeaux. Fa caldo e mi chiedo come faccia a restare con quell'abito addosso. L'uomo ha l'aria triste, dimessa come il suo vestito e ci guarda con occhi acquosi. Un velo di barba grigia cambia il tono della pelle del viso, rendendolo smorto. E' gentile e ci precede sulle scale, fino all'appartamento del poeta.

In un inglese con un forte accento illustra i quadretti con i disegni e le poesie, la scrivania dove il poeta scriveva e che sembra essere ancora come l'aveva lasciata, le librerie, alcune con ante vetrate (dove stanno i volumi più preziosi e che più amava), vecchie foto incorniciate....

La voce del vecchio è monotona. Si ferma un poco, quando gli chiedo come mai lui sia lì, a mostrare la casa di Kavafis ai pochi che passano, sempre di meno.

Era stato insegnante di letteratura, mi rispose e aveva amato il poeta di una passione viscerale. Ciò che lo aveva segnato era l'averlo incontrato, quando Kavafis anziano era ormai alla fine della sua vita e quando lui aveva sette anni. Suo padre lo teneva per mano e aveva salutato quel vecchio maestro con grande rispetto e deferenza. Gli disse chi era, quando lui bambino lo domandò, mentre si allontanavano. Da allora aveva cercato le sue poesie e gli aveva donato la propria amorevole dedizione.

Tacque, dopo avermi raccontato la storia. Guardando oltre lo scrittoio, verso la finestra. La mano scorreva lungo il bordo superiore della sedia, di legno lucido, come ad esprimere l'imbarazzo impacciato di una confessione intima. Uscii dalla stanza. Avevo bisogno di respirare e mi affacciai alla finestra aperta del corridoio. La vista dava su un'officina, oltre un grande portone di ferro aperto. Il meccanico aveva appena terminato il lavoro su una vecchia Simca gialla e azzurra. Ora, sotto lo sguardo attento del proprietario, passava un turibolo di incenso tutto intorno e dentro l'auto.


THE CITY
You said, "I will go to another land, I will go to another sea.
Another city shall be found better than this.
Each one of my endeavours is condemned by fate;
My heart lies buried like a corpse.
How long in this disintegration can the mind remain.
Wherever I turn my eyes, wherever I gaze,
I see here only the black ruins of my life
where I have spent so many years, and ruined and wrecked myself."
New places you shall never find, you'll not find other seas.
The city still shall follow you. You'll wander still
In the same streets, you'll roam in the same neighborhoods,
In these same houses you'll turn gray.
You'll always arrive at this same city. Don't hope for somewhere
else;
No ship for you exists, no road exists.
Just as you've ruined your life here, in this
Small corner of earth, you've wrecked it now the whole world through.
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