Gebel Taw-àm Al Asad appare subito dietro il rilievo che la strada per il nord supera venendo da Sadah. Si staglia sull’orizzonte del grande Rub Al Khali nel tremolio dell’aria calda alitata dalla sabbia del deserto e dall’asfalto. L’asfalto diritto come la scia di una freccia sparisce lontano, davanti al muso della Toyota.
Resto ad ascoltare il basso suono del respiro di terra bollente che si muove intorno, non ancora vento, e quello del silenzio diffuso dalle sabbie della Zona Vuota e dal basalto di quella montagna.
Lei si impone, nera e netta nel chiaro dorato zeppo di avvincente monotonia tutt’intorno. Persino il cielo è contaminato dal tono giallo del deserto più deserto.
Striature, come graffi incommensurabili, fatti con la disperazione di Titani dannati da Dei più forti di loro, segnano il versante sud di questa montagna. Colonne di pietra nera, eiaculazione cristallizzata del vulcano che qui era in origine, formano le sue due punte, dolci e forti assieme. Una montagna doppia e gemella.
Avevo già visto Gebel Taw-àm Al Asad, pur non essendo mai stato qui prima.
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Una sera, una delle tante di quell’ultimo mio periodo nella metropoli, mentre nello studio guardo distrattamente la posta, dopo la solita giornata passata tra telefonate, appuntamenti, idee buttate e soluzioni trovate, incontrando persone convinte di star facendo ciò che di più fondamentale esista al mondo. Intanto, invece la Terra indifferente e miliardaria - lei, di anni - continua spietata la sua danza nell’Universo, a sua volta troppo saggio o superbo per occuparsene.
Tra le mani tengo la cartolina di invito per il vernissage di una mostra di acquerelli. Una delle tante in quel periodo di fervore immaginifico ed immaginario per quella grande e vacua città. Resto un po’ così, senza vedere veramente l’immagine della cartolina imprigionata tra le mie dita, mentre una volta di più rifletto automaticamente che devo andarmene da questo labirinto urbano prima di morirne.
La cartolina rappresenta un deserto di nuvole dorate, sul quale si impone una montagna a due punte, tra il rosso-sangue e il nero-notte. Sensuale, quasi allusiva, su di essa si è posato un leone alato, le zampe su entrambe le cime. Osservando il dipinto si guarda la scena da dietro, il punto di vista è un po’ più in alto, come se si planasse dal cielo del sud. Giro il cartoncino rientrando in me stesso. C’è l’indirizzo e l’orario del rinfresco inaugurale. Se faccio presto, posso ancora telefonare alla mia amica Bruna, che ama l’acqua e gli acquarelli, per andarci con lei.
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Rimsi a lungo, quella sera, davanti a quel quadretto. Restavo lì affascinato, come tentando di entrarci o per farmelo entrare dentro. Proprio come ora sto qui, in piedi sul rilievo che chiude a sud la grande spianata di sabbia, tra me e la Gebel Taw-àm Al Asad e poi oltre, per migliaia di chilometri di sabbia, deserto, arbusti, beduini, cammelli, pick-up e petrolio, fino al Mediterraneo.
Mentre ci avviciniamo con la Land Cruiser di Mohamed, sparati alla usuale ipervelocità con cui si viaggia da queste parti, tento di scattare delle foto. “Basta chiedere di fermarsi”, mi fa Mohamed, prendendomi in giro come al solito. Consumo forse un rullino, come per rubare l’anima di quella montagna con una svalangata di immagini. E’ proprio una bizzarra coincidenza: uguale, precisa, all’acquarello. E, ancora coincidenza, il simbolo di questa terra è il Leone Alato di Saba. Riesco persino a vederlo, se stringo gli occhi per spremere ancor più immaginazione, sulla montagna, le zampe divise tra le due punte, a scrutare l’orizzonte siliceo del deserto verso settentrione, qua e là macchiato di nero basalto.
Chissà cosa cerca o cosa aspetta. Forse quello che desidero anche io.
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La pista parte sul lato destro della strada. Mohamed cerca di fare resistenza, pesta i piedi, impreca nel suo arabo stretto, ma non riesce a smuovermi dalla mia idea. Non vuole andarci, non vuole allontnarsi dalla striscia asfaltata ' dalla strada conosciuta. Stasera saremo a Shamal Madina, gli prometto. Nessuno si accorgerà del nostro giro sulla montagna fuori programma, gli dico. Incautamente, poche ore prima, mi ha detto che non c’era problema ad andare dove si vuole, in questo paese. “E’ un paese libero,” ha detto. Ora però si lamenta di militari, di beduini e di un qualche diosachialtro che potrebbe rovinarci la giornata e forse anche la vita, se ci becca da quelle parti. Sulla pista piagnucola qualcosa a proposito della sua auto, delle sue due mogli che lo aspettano e persino della sua mamma. Tocca a me, ora, prenderlo in giro. Non si vede veramente nessuno fino all’orizzonte, in ogni direzione.
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Spero che Mohamed ci sia lì sotto quando scenderemo. Ci metteremo un po’ e questo è fuori contratto, oltre che fuori di cotenna. Fa un caldo micidiale e sono zuppo di sudore. Ha ragione lui: potrebbero anche prenderci per spie e arrestarci i militari, oppure depredarci i beduini. Siamo anche vicini ad un confine vago, tra paesi che restano da sempre ostili l'uno con 'altro. Comunque l’ho visto cercare di nascondersi, Toyota, qat e tutto il resto, dietro le rocce alla base della pietraia che sostiene i camini di basalto. Poi ha controllato la sua pistola russa, mugolando. Buon segno: forse starà ad aspettarci. Isabelle mi segue agile lungo l’invisibile via. Non abbiamo nessuna attrezzatura per arrampicata e spero che la via non si faccia troppo difficile. Non sembra lunga. Come scenderemo? Mi è sembrato che la dorsale a sinistra sia facile. O forse sarà meglio tentare a destra. Non ci penso. Non voglio farlo per ora. Saliamo cauti, kufiah in testa e un po’ del qat di Mohamed in bocca.
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Il basalto scotta sotto le mani. L’orizzonte si apre un po’ di più ad ogni mossa. Non è difficile, ma questa roccia non è sempre compatta, malgrado l'apparenza da lontano. Un serpente scivola via da una fessura poco a destra. Isabelle, per fortuna non se ne è accorta. I serpenti la mandano in tilt. Sarà velenoso? Non voglio fermarmi a chiederglielo, ma mi vengono i brividi a pensare di dover mettere le mani nei buchi della roccia ancora qualche centinaia di volte, prima di arrivare lassù.
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La linea tra terra e cielo si curva netta, sfalomerando sotto alla danza dell’aria calda. Mi volto e vedo la strisciata nera della strada, con i puntini multicolori dei camion che ci scorrono sopra. Molto distanti e molto piccoli. Il silenzio è accompagnato solo dal ronzio del calore, dal nostro respiro, da qualche pietra che rotola giù schizzando da sotto le scarpe. Persino le auto sulla strada lontana, unico segno umano, qui in mezzo a questo deserto, sono annegate in un’assenza di suoni quasi onirica.
Verso est vedo, solo adesso, un campo di beduini, dove delle tenui chiazze verdi di arbusti spinosi tingono un poco le sabbie. Spero di essere invisibile, quassù. D’altra parte, perché dovrebbero immaginare che qualcuno si trova appiccicato sulla piastra bollente di questa parete, visto che non ci è mai salito nessuno? Spero, in ogni caso, che siano amichevoli e soprattutto Mohamed sia ben nascosto. Non sono tanto lontani ' non abbastanza. Usano il Kalashnikov con una certa disinvoltura, quando si entra nel loro territorio senza permesso e comunque vogliono sempre qualcosa, posto che siamo in condizione di trattare, invece di essere semplicemente depredati e fatti sparire.
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Mi manca la presenza di un rapace: un’aquila, ma anche un falchetto andrebbe bene. Mi terrebbe compagnia. Romperebbe l’uniformità del cielo bollente e piatto. Cosa sto rincorrendo qui, a pochi metri dalla cima gemella più alta, insieme a questa donna che è qui con me per questa arrampicata imprevista e incredibile in mezzo alla Zona Vuota? Cosa ne pensa lei? Non parla. Non ha detto niente da quando abbiamo attaccato la parete. Di solito qualcosa diciamo. Chi è lei?
Cosa sento? una leggera euforia fatta di bollicine e di granelli di sabbia. Ho quell'ansia di vedere cosa c’è sopra e la paura che succeda come tutte le altre volte. Un misto assurdo di meraviglia per una vista nuova e di “lo sapevo già: è come sempre - eppure no. ” Un sano, appagante, nutriente casino dell’anima, la droga interiore tipica di ogni salita, di cui si inebriano gli alpinisti. E forse quella stessa tutti gli umani curiosi?
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Solo aria. Tutt’intorno adesso c’è solo aria. calda, accecante, leggera. Unico punto di riferimento: l’altra cima gemella, separata da un profondo, sensuale solco. L’altra cima. E’ quella che ci permette di capire che esistiamo ancora – il punto di riferimento senza il quale un'aesistenza non può essere cosciente di se stessa. Un po’ come il raggio laser di riferimento in un ologramma: senza, resta solo il blurr confuso e sconcertante di un’immagine incomprensibile. Tutt’intorno, qui, è così. Ma dentro? Dentro è uguale. Solo che è anche indifferentemente, assolutamente, semplicemente, deflagrantemente bello. Allora, è tutto come sempre. Come la usuale novità di ogni salita. Mi aspetto sempre che avvenga qualcosa di straordinario, di apocalittico, di definitivo, ogni volta che mi arrampico su una montagna. Poi, invece, è così: rassicurante e inquietante insieme. Nuovo e conosciuto mischiati, come nei giochi da bambino, come nelle favole ripetute ogni sera prima di addormentarti. D’altra parte, anche un orgasmo è la stessa cosa. Cerchi di fare in modo che ogni volta sia unico, speciale. E poi lo cerchi ogni volta ancora, non ti annoi. Magari ti inquieta, ti svuota, ti lascia tensione, ti appaga, ma non ti annoia. Ogni volta che sali su una montagna ti dici “questa è proprio diversa.” Non lo è, eppure lo è.
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Se non fosse per il fatto che ora il Leone Alato ha planato da est. Prima un puntolino di fuoco tremolante nel cielo azzurro dorato, proprio in faccia al sole che scendeva veloce, dalla parte opposta, per il suo appuntamento col tramonto. Poi il puntino è diventato proprio lui e l'ho visto: Il Leone Alato. Netto, impossibile, assurdamente reale, affascinante, avvincente.
Ha planato dall’est, virando dapprima a meridione e poi puntando alle due cime del Gebel Taw-àm Al Asad. Si è appoggiato delicato, silenzioso come sono i felini, le zampe su entrambe le cime. Ci siamo guardati un istante negli occhi. Senza fiato. Un istante disfinito. Poi, un po'stupito e insieme noncurante di noi ha cominciato a scrutare l’orizzonte verso nord. Le penne delle ali svolazzavano nel vento caldo.
Che cosa potevo domandargli? Perché?
E' stata Isabelle ad allungare la mano. Lei, di fronte a me, protendendosi mentre stava sull’altra cima della Montagna Gemella. Ha allungato la mano e ha toccato il Leone, piano, sul muso umido di fiato. Lui ha socchiuso gli occhi, senza smettere di guardare l’orizzonte.
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Guardo la cartolina imprigionata tra i miei pollici, in questa specie di ristorante di una città al confine tra due deserti perfettamente identici e separati da un confine senza senso. Entrambi parte di un’unica Zona Vuota e di un unico pianeta, mentre una volta di più rifletto automaticamente che è appagante essere in questo labirinto fatto di suq, di case vive che nascono dalla terra sabbiosa e ad essa tornano quando muoiono, di parole dette in una lingua aspra e forte tra un muro e l'atro.
A Mohamed la paura è passata. Adesso si sente forte e ha ripreso a sfotterci amichevolmente. Racconta l’avventura, con circospezione, agli altri suoi amici autisti che siedono al nostro tavolo, fiero di noi, i suoi suah, i suoi sayyd, mentre tutti quanti prendiamo con le mani riso e pollo al khamun dal grande vassoio in centro alla tavola. E mangiamo questo cibo buono, insieme ad un materno hobbz caldo, bevendo shay troppo dolce alla cannella e al cardamomo.
La luce viene solo da alcune lampade a petrolio. Nell’acquarello le penne delle ali svolazzano nella luce scura e tremolante.
Che cosa posso domandargli? Come?
NOTA:
L’acquarello è un’opera di Mauro Bini che era stata esposta alla Galleria “Nuages”, a Milano, nell’ottobre del 1989. Gli telefonai sette anni dopo, e poi gli scrissi una email, per chiedergli se avrebbe gradito essere citato in un mio racconto, riproducendo l'immagine del suo acquarello. Rispose di sì. Gli spedii il racconto originario, in cambio. Questa è la versione rivista e corretta, oltre venticinque anni dopo.
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